(foto di medicineman)
Vox clamans in deserto. Scrittore in pausa, fotografo consumatore ossessivo di Sd Card, ascoltatore di tanta musica, brontolatore professionista.
Timbah sembrava il più svitato di tutti. Però ho dovuto ricredermi. E poi, abbiamo un progetto in comune.
Lui, appena finisce di studiare, metterà su una fattoria in Massachussets, io invece, appena andrò in pensione (o sarò prepensionato, o messo in mobilità o non so cosa), metterò a profitto i tre ettari di terra che mi sono toccati in eredità. Ne abbiamo discusso, lui con il suo americano dalle parole stiracchiate, con suo padre (papà...I'm papà) Mac (ma che significa Mac? Oh niente ha risposto lui, solo che mio nonno si chiamava Mac ed a mio padre è sembrato giusto mettermi Mac) che concordava con me. Il ritorno alla terra ci salverà. Una bella passeggiata in giro per Palermo, semideserta, Mac ed i suoi figli erano affamati e curiosi di tutte le specialità di road-food palermitano. Winnie, la sorella di Timbah, mi ha chiesto di aiutarla a preparare un itinerario in Sicilia (I love pasta&vino) che prendesse in considerazione più i ristoranti che i monumenti. E così ho fatto. Nota bene: Winnie non è la classica americanina cicciona, anzi. Mi hanno lasciato tutti, ma proprio tutti i loro recapiti. Siamo d'accordo, quando andremo a New York (sembra che ci andremo, tutta la med-famiglia, a luglio, per festeggiare un compleanno importante), ci sentiremo, e passeremo dalla loro casa in Massachussets.
20 pecore, 20 capre e 10 mucche. Una coppia di asini di Pantelleria. Questo è il mio progetto, e Timbah delle foreste che ha camminato senza scarpe nonostante il dicembre freddo umido di Palermo, è stato completamente d'accordo.
Fanculo al 2008, sembra che si usi ancora fare gli auguri per il 2009.
Beh, ve li faccio. Auguri per un 2009 meno pieno di pazzia che il precedente. Però, a sentire i notiziari alla radio, non sembrerebbe proprio.
e vaffanculo sia a giorgino watercloset cespuglio
sia a quel vecchio maniaco di babbonatale.
Sala d'attesa di un ambulatorio medico.
Pomeriggio di fine primavera, la luce vira al miele, un pianoforte verticale coperto da un lenzuolo bianco ozia. Definitivamente, penso.
Donne, uomini, anziani, una suora. L'infermiera che regola l'afflusso ha da tempo superato l'età della demenza senile, si ricorda di essere sè stessa solo al momento di chiedere la mancia.
Uno con la faccia di pensionato delle ferrovie sta seduto, la schiena dritta, senza appoggiarsi alla spalliera.
I rumore del traffico, intenso nella via, irrompe nella sala dal balcone aperto, ingombrante, ma siamo al primo piano, è normale.
Però. Però quello con la faccia di ferroviere a riposo parla. Parla con sè stesso. Anzi non sta parlando, pensa ad alta voce. Non tanto alta, ma quanto basta per far sì che intorno a lui si spanda un alone di sedie vuote.
Tutte le donne della sala attraversano i suoi occhi, transitano dal cervello e fuoriescono, impegnate in frenetiche attività sessuali, dalla sua bocca.
La suora si alza, va dall'infermiera con passo zoppo.
"quello è un porco" dice sottovoce alla quadrumane che attende la mancia.
Porco dentro, penso io.
Passa una vespa smarmittata e copre la frase indiavolata che quello sta dicendo sul conto della suora.
foto di medicineman
sono responsabile del contenuto dei balloons.
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Antonio…
…
Antonio!
Eh?
Non fare finta di non sentirmi.
Chi?
Cosa chi, lo sai benissimo chi sono.
Ah.
Testadiminchia, solo ah sai dire?
Effettivamente, potrei articolare fonemi più complessi.
Non è questo il punto. Non è questo il punto. E non è questo il motivo per cui ti sto chiamando.
Ah.
Ricominci? Ma ti sei visto?
Si, son un po’ in sovrappeso, ma ho ripreso ad andare in palestra, due volte a settimana.
E poi? Da quant’è che non ti metti tranquillo a leggere? Per non parlare della scrittura.
Già, ma ierisera ho ripreso il libro di Murakami, ne ho letto una ventina di pagine e poi…
Appunto, e poi?
E poi ho acceso la televisione, era tardi, stavo aspettando che rientrasse mio figlio.
E poi? E poi?
E poi e poi. E poi mi sono messo a fare zapping. Va bene, ho chiuso il libro, ma avevo…
Ma, ma, ma , cretino testadicazzo. Ma poi ti sei messo a guardare solo le signorine fruttuose, quelle decerebrate scosciate che sono messe lì in televisione apposta per spegnere i pochi barlumi di luce del tuo cervello, ammesso che quella poltiglia informe che ti sciaborda dentro il cranio possa ancora essere definita un cervello.
Non ce la fai a farmi sentire un pervertito.
Certo, lo sai benissimo che sei un maniaco, un demente pippaiolo.
Ora non esagerare, eppoi pensare un po’ a sé stessi…ma si abbandonare i pensieri, per un po’…
Ma te lo sei dimenticato di quello che dovevi fare? Te lo sei dimenticato, e il tuo comportamento mi fa pensare che tu sia molto più vicino alla demenza senile di quanto possa immaginare.
Esageri sempre, mi sono lasciato un po’ andare, ecco. Mi sono lasciato un po’ andare, però…
Però cosa. Cosa, cosa, però. Sei un deficiente, come al solito cominci le cose e poi lasci perdere, rimandi, posterghi, archivi provvisoriamente.
Senti, sentitela come è acuta, caustica, eh signori la mia coscienza sale in cattedra, zitti tutti, la mia coscienza tiene una lectio magistralis…
Che difesa! Che difesa! Ora basta, vuoi per cortesia ripetermi quello che mi avevi promesso qualche mese fa? Ce la fai a ricordarlo o ti aiuto io?
Promesso? Io non so promettere, sono un bugiardo cronico e la maggior parte dei miei progetti restano tali, non ho le palle per portarli avanti: eccoqui. Volevi sentirmelo dire? Te l’ho detto, e ora?
Ora basta. Stai cincischiando, accampi scuse e non mi fai nessuna pena. Nessuna. E non credere che mi commuova quando ripeti le accuse che gli altri ti fanno, lo vedono bene quello che stai per diventare.
Veramente…veramente, non è perché lo vedono, ma perché lo credono.
Smentiscili. Zittiscili. A-g-i-s-c-i!
Hai ragione. Ora cerco i file. Ora li rimetto sul desktop. Si. Ricomincio a scrivere il romanzo. Anzi li riprendo tutti e due. E poi.
E poi?
E poi avrò bisogno di isolamento, di concentrazione, di produrre idee, pagine, capitoli.
Come sei pomposo, ma chi ti credi? Tolstoi? Produrre capitoli, pagine…te ne servono duecento, duecentocinquanta, te l’hanno pure detto. Finiscili questi romanzi. E poi vediamo se è il caso di lasciar perdere completamente con la scrittura.
Quindi neanche tu sei sicuro che..,
Coglione. Coglione, io sono la tua coscienza, non un critico letterario. Vai a rompere le palle all’editore, comincia ad attivare le tue conoscenze, datti un tempo, una scadenza, provaci. Provaci almeno. E concentrati. Lo sai che devi fare, vero?
Si lo so. Chiudere con internet, con i forum, con il perdere tempo davanti alla televisione, concentrazione ed isolamento, questo serve. Si questo mi serve.
Bravo. Quando comincerai?
Domani. Domani comincio. Stasera faccio le ultime cose, saluto, saluto i contatti…
Domani, domani, sei il solito, come faccio ad essere ancora la tua coscienza? Ti abbandono, uno di questi giorni. Ecco, domani ti abbandono.
Domani?
Si domani, ciao.
Pioveva, una serata adatta per andare al cinema. Ripresa di stagione, coi soliti amici. "un musical? vuoi vedere mammamia? nooo, andiamo a vedere il film di woody allen, che sicuramente ne vale la pena". Le ultime parole famose. A parte la scelta, discutibile, di raccontare con voce fuori campo una serie di scene che per comprimere i tempi non sono state messe nel film (mio cattivo pensiero), la colonna sonora infarcita di musiche prese dalle compilation economiche di cafè del mar, il film è poco. Le cose migliori sono i dialoghi in spagnolo tra una allucinata Penelope Cruz e un polifemico Javier Bardem che in questa pellicola non sbatte mai le palpebre, sembra finto. E anche la bambolina del cine che mi è tanto piaciuta in altri film, Scarlet Johansson, mi pare che in questo film non reciti affatto. L'amore a tre, ma anche a quattro, a tre meno uno, a due più due... Ora non voglio dissuadervi, ma...
"voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliemi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile"
Roberto Saviano
e subito sono arrivate le frasi di circostanza del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio. Purtroppo quelle frasi non hanno l'efficacia di un giubbotto antiproiettile o di una vettura blindata. Quelle frasi potranno servire per comporre i coccodrilli. Non capisco, non capisco perchè nonostante siano stati fatti nomi e cognomi, quella della Campania viene considerata zona franca, in cui lo stato può entrare solo con frasi di circostanza. Adesso ci vogliono i fatti. Perchè un'Italia senza Roberto Saviano è una nazione svuotata, in cui si può solamente sopravvivere e subire le arroganze di chi il potere lo ha preso con la pistola e di chi lo ha preso con il voto.
Che non è solo quello scaduto e riciclato (accattativillo, vuol dire fiducia...), che poi non sarebbe nemmeno una novità, basta guardare alle norme salva Carnevale, al senatore condannato Totòcuffaro, alla merce di scarto che dai teleschermi strombazza le virtù del Premier.
Per esempio, Belpaese è quello che va alla partita di calcio in Bulgaria e si porta da casa le bandiere con le svastiche e i cori nazisti.
Belpaese è quello che non prenderà sul serio Saviano finchè non lo manderanno in orbita con una tonnellata di dinamite ( nel belpaese è tipico fare morire la gente che ha il coraggio e lo usa, e dopo che l'hanno accoppato intitolargli un aeroporto o un premio letterario).
Belpaese è quello che va in a'merica e si bacia con il pessimo George e gli dice che passerà alla storia: certo, ai libri di storia per avere scatenato una guerra evitabile.
Belpaese è anche quello che da quando il petrolio non costa più centotrenta dollari al barile il gasolio costa ancora un euro e quaranta al litro.
E per te, sconsolato o incazzato lettore di questo blog, qual'è il fulgido esempio di Belpaese?
Guardo la fotografia, lì è giovane, posso dire che somiglia al secondo dei miei figli, il dna non mente.
Lo sfondo è il muro della casa di campagna del nonno, con le persiane verdi. Lui ha una cernia bruna sulle braccia, l’animale ha le fauci spalancate, e il suo cacciatore esibisce un sorriso di circostanza, quello di un giovane pescatore subacqueo che ha sorpreso e arpionato un grande pesce nella sua tana.
Se si guarda bene la foto, ci sono pure io. Ho in mano una fetta di pane spalmato di burro, col sale sopra, e nell’altra un pomodoro rosso, raccolto dal nonno. Se la guardo bene (anche se basterebbe girare la piccola foto stampata su carta agfa per leggere la data che qualcuno ha scritto dietro a matita), riesco a ricordarmi che si tratta dell’agosto del 1968. Io indosso una t-shirt bianca, ed i miei primi blue jeans, che erano di una tela dura, forte, con le cuciture di un bel giallo oro, ed i rivetti di metallo brunito. Mi ricordo la marca, e mi ricordo che li avevo visti indosso a quel fratello di mia madre, che poi me li aveva acquistati, lo stesso che nella fotografia mostra la grande cernia bruna al fotografo.
Erano i miei primi pantaloni lunghi, in qualche modo mi facevano sentire grande, avevo finito la terza elementare, l’estate lunga mi scaldava con i suoi raggi, l’estate di un bambino fortunato, che alla fine della scuola poteva godere di tre mesi di spiaggia e campagna, della vicinanza del nonno, dei genitori, degli zii che erano giovani. Appunto come il giovane della foto, dal quale mi separano diciotto anni. Praticamente un fratello maggiore.
Sposto la memoria più in là, all’estate del 1978: ho preso la maturità classica, un esame devastante, la solita orribile esperienza. Devo prendere la patente B.
Il ragazzo con la cernia sulle braccia è cresciuto, ha messo probabilmente la testa a posto, mi dice che passerà a prendermi per la mia prima lezione di guida, visto che lui ha una autoscuola, anche se non è vicino casa ma in un paese della provincia. Manca poco agli esami, dico io. Non ci pensare, dice lui, del resto sono sicuro che sai guidare.
Certo, qualche volta sulle trazzere di campagna papà mi aveva messo al volante della fiat millecento color carta da zucchero, con un ostico cambio al volante, ma di sapere guidare non ne ero certo.
Passa a prendermi, scendi con qualche cambio di biancheria, dice al citofono. Ho capito, andrò a stare qualche giorno da lui, così avrò il tempo di prendere confidenza con la guida dell’automobile. Arrivo giù, lui ha le chiavi in mano, me le lancia, guida tu dice lui, va bene dico io, che penso di fare una classica prima lezione di guida di cinque minuti, e invece porto la macchina, che solo per mia tranquillità psicologica ha i doppi comandi, fino all’autoscuola, e per tutta la settimana successiva percorriamo insieme centinaia di chilometri.
Il giorno degli esami metto in atto i suggerimenti dati dallo zio, quando ti siedi avrai l’esaminatore accanto, salutalo, aggiustati il sedile alla giusta distanza dai pedali, sistema lo specchietto interno prima e quello esterno dopo, lo guardi negli occhi e gli chiedi ingegnere dove dobbiamo andare. L’esaminatore si rilassò, dopo che per tutta la mattinata aveva dovuto sopportare rustici aspiranti automobilisti, mi disse ho già notato i movimenti che ha fatto, facciamoci un giro dove vuole lei, anzi andiamocene al bar sul lungomare che lo zio mi offre un caffè, finalmente mi posso rilassare.
Presi la patente, e dopo di me i miei fratelli ed i miei figli e tutti i cugini e i parenti.
Dieci anni dopo, è il 1988, io ho deciso di incasinarmi defintivamente, chiedo allo zio di farmi da testimone alle nozze , lui mi dice sei sicuro, io dico sono sicuro, anche se non era sicuro che ero sicuro, e dico di si.
Stamattina pioveva, ho preso la macchina per andare nella sua casa di campagna, quando sono arrivato mi ha ricevuto mia cugina, lei vive a Berlino, ha in braccio il suo secondo cucciolo, quello che ha la faccia da tedesco. Entriamo nella casa, al muro c’è l’ingrandimento di quella fotografia, la guardo per qualche secondo, poi vado nella sua stanza.
Lo saluto, mi prende la mano e mi chiede se ho visto le sue analisi del sangue. Devo dire una bugia, non le ho viste, io so perfettamente che le analisi e tutto quello che è stato fatto per lui ed intorno a lui è completamente inutile.
Ha la bocca spalancata, come la cernia della fotografia, cerca aria, il cancro gli ha completamente invaso i polmoni. Gli porgo la mascherina della bombola dell’ossigeno, l’appoggia sul volto. Perché non c’è il dottore, dice lui. Verrà più tardi dico io. Più tardi, troppo tardi.
Sono tornato a casa, pioveva ancora, guidavo piano, sull’altra corsia dell’autostrada una vecchia auto stava bruciando, la polizia aveva chiuso la corsia e la gente scesa dalle altre auto in viaggio guardava attonita da sotto l’ombrello.
Guardo di nuovo la fotografia, lui, la cernia, il muro della casa, io bambino con il pomodoro in mano.
Guardo la fotografia, ma non la vedo più bene, forse perchè sta nascendo una lacrima
I MIRACOLI DI SANTO SILVIO
Il primo miracolo fu il lodo Alfano, tramite il quale ha stabilito per legge che non può più essere processato o condannato per nessun motivo.
Poi, Santo Silvio andò dall’amico Gheddafi, regalandogli cinque miliardi di euro (ci si comprano cinque alitalie con quei soldi) in cambio della fine degli sbarchi in Sicilia: i fatti di oggi provano che purtroppo il miracolo è leggermente difettoso.
L’Operazione Alitalia: chiamiamola così. L’Alitalia è (o era) una azienda statale, compagnia di bandiera in cui per una serie di meccanismi perversi, i manager che la hanno affondata hanno beccato liquidazioni miliardarie, in cui i fornitori di cocacola o biscottini sono stati capaci di vendere a prezzi fino a cinquanta volte il prezzo di mercato, compagnia di bandiera che nel bene e nel male ha assicurato i collegamenti lungo la nostra tormentata penisola e con il resto del mondo, riuscendo anche a trasportare milioni di turisti a scoprire quel che ancora resta dell’Italia.
Arrivato al potere, Santo Silvio decide di sdebitarsi con i Furbetti della Cordata, e decide di vendere la compagnia statale. Però compie un miracolo: i debiti resteranno allo stato, e verranno succhiati dalle tasche dei contribuenti. Ricordatevela questa parola: contribuenti. Che bisogna stare attenti a pensare che il debito pubblico derivante dal Miracolo Alitalia si riversi sulle spalle di tutti gli italiani: giammai! Verranno inculati solo quelli che le tasse le pagano, cioè i lavoratori dipendenti.
Dicevamo che i debiti li pagherò io e tutti quelli che le tasse le vedono sparire direttamente alla fonte, in busta paga, mentre
Costoro però vogliono solo il malloppo, e non possono permettersi di pagare stipendi ai dipendenti e così dicono loro: i vostri stipendi sono fuori dal mercato (falso), non vogliamo pagarli, per cui se volete starci, voi che avete causato la crisi dell’azienda, voi sporchi lavoratori, dovete assoggettarvi ad un taglio minimo dello stipendio del venti per cento. Aspetta aspetta, ma non abbiamo detto che l’azienda era gestita male da manager nominati dalla politica? E che c’entrano i lavoratori?
C’entrano, e sono sicuramente agitatori e comunisti, che ostacolano il salvataggio della compagnia,
Così il fido Fantozzi minaccia: tra ventiquattrore tutti a terra per colpa dei sindacati. Aboliamoli, stì sindacati, e torniamo al Fascio dei Lavoratori; come? Persino Gianfranchino Fini ha abiurato? Fa niente, ci sono altri validi mentòri del periodo.
Quindi, il miracolo di Santo Silvio consiste nell’apparire il salvatore con la collaborazione dei Furbetti della Cordata.
Asino chi ci crede. Tutti asini.
A proposito di asini; tutti così li vuole i nostri figli, nostro Signore delle Emittenze, Santo Silvio da Arcore, tramite la mediazione della sua ministressa Gelmini: riduzione del numero delle ore scolastiche, che a scuola i bambini si annoiano e non hanno tempo di vedere tanta buona televisione da cui venire simpaticamente educati al Cafonismo Nazionale ed al Consumismo di Marca Obbligatorio. Non basta ridurre le ore? Ma sì, ragazzi miei, tagliamo anche un anno delle superiori! Basta con questi noiosi anni di scuola, il Paese ha bisogno di manodopera ignorante e manovrabile, lo studio e la cultura fanno male, anzi malissimo. Perché il più grande pericolo che corre chi ha studiato e riesce ancora a fare funzionare il cervello è che si accorga che il piffero suonato da Santo Silvio da Arcore è taroccato, e a poco a poco si trasformerà in un lubrificato fallo da piantare nel culo del contribuente (per chi non se lo ricordasse, il contribuente è quello che paga le tasse, non quello che le evade: chi le evade manderà i figliuoli alle scuole private, nelle università a pagamento e otterrà il diritto di far parte della nuova classe dirigente, poveri noi). Tengo a precisare che questo genere di divertimento sessuale non mi divertirebbe per niente.
This is the end, beautiful friend
This is the end, my only friend
The end of our elaborate plans
The end of ev'rything that stands
The end
No safety or surprise
The end
I'll never look into your eyes again
(jim Morrison)
antegatto e postgatto
questo lo spiego dopo.
Madrilista
Prima parte della vacanza. Che non me lo immaginavo proprio. Temevo di andare incontro ad una città pomposa, tutta compresa nel suo ruolo di bomboniera monarchica.
Invece no; dove sorgono edifici di fantasiosa architettura, spesso si legge “qui c’era la chiesa dei santi pinco e pallino” che siccome non se li filava nessuno è stata abbattuta e al suo posto c’è stò palazzone, che tanto se tra qualche decennio ai madrileni non piace più, un po’ di tritolo e lo buttano giù e ci fanno magari uno zoo o una piscina per anziani poveri convalescenti.
M’è piaciuta la metropolitana, le strade pulite, i ristoranti tipici, anche il caldo m’è piaciuto, che era secco e non faceva sudare. Poi, dopo qualche giorno, è caduto un aereo di potenziali bagnanti, e un po’ di dolore l’ho sentito anch’io, che di quell’enorme aeroporto mi ero beato. Tranne il fatto che l’aereo che arriva e parte da Palermo lo imbarcano da una specie di corridoio segreto, di quelli da dove possono passare solo irregolari e fantasmi.
Siamo entrati (e poi ci siamo tornati) in un ristorante asturiano, vicino la Puerta di Toledo, e siccome non capivamo niente della lista dei cibi uno dei camerieri ha capito la difficoltà e si è avvicinato, dicendoci che ci mandava il chico italiano, che poi ci ha spiegato: “qui si mangia in compagnia, dalla stessa padella e dalla stessa pentola, ordinate una cosa per volta, e vedrete che vi riempirete la pancia”. Infatti, con le raciones ci si mangiava in quattro, e poi restava voglia di assaggiare ancora qualcos’altro. Se passate da quelle parti una puntatina alla sidreria “la burbuja que rie” fatevela. E se proprio vi va di essere esotici, ordinate il sidro, che necessita di una mescita acrobatica, che da sola vale la spesa; altrimenti meglio la birra o il vino. Ma si, va tutto bene quando si sta tra gente accogliente. E poi, tra tutti quei Lopez e Fernandez e Rodriguez mi sentivo a casa.
Trenta giorni di mare
Senza meduse, non se ne sono viste, e allora nuotate amniotiche, che ho ancora i seni paranasali pieni d’acqua salata, e bracciate sott’acqua tra le castagnole e le piccole occhiate. Però qualcuno mancava, ci sono stati dei giorni irreali, come se nulla fosse successo, come se l’equilibrio fosse ancora mantenuto. Il fatto che mi preoccupa e che comincio a conoscere un certo numero di vedovi e vedove miei coetanei, si vede che sto invecchiando.
Appuntamenti inevitabili
Con le persone che non si vedono per trecentotrenta giorni, fino all’agosto successivo, con quelli a cui viene voglia di dirlo, che non importa la frequenza e la presenza, siamo amici anche se ci parliamo ormai solo due o tre volte sulla spiaggia o al belvedere.
Con la casa, il giardino, gli alberi che crescono, qualcuno si dovrà tagliare per fare posto a qualcun altro che vegeta più impetuosamente, con la necessaria inevitabile manutenzione; lo scorso week-end ho finalmente riparato un avvolgi tubo cannibalizzandone un altro che si era rotto un paio d’anni fa e che-prudentemente-non avevo ancora buttato.
Con i tramonti, con i pensieri del dopo cena, con la domanda quanto durerà ancora, con le zanzare e gli uccelli notturni, e con la vendemmia, anticipata come sempre, e dimezzata da gazze e colombacci. Ho già in programma l’acquisto di una carabina a piombini per fare in modo che le cento bottiglie previste l’anno prossimo si riempiano davvero, di chardonnay e pinot grigio, torrefatti nella vigna che si calcina a sud, davanti alla casa.
Con le visite al cimitero, dalle quali ritorno sempre con l’urgente necessità di un collante emotivo, dato che a guardarli, i nomi ed i volti mi fanno sentire incolmabile e definitiva la mancanza dell’intera famiglia di mio padre. Ti porterò le rose del mio giardino, anche se so che i fiori non ti piacevano.
Musica, musica.
Chissà chi contatta i manager dei gruppi che si presentano all’Ypsigrock, quest’anno erano più di un paio i nomi di rilievo, a suonare nella piazzetta davanti al castello medievale.
Art Brut, rumorosi, dissacranti, la macchietta rock di Brian Ferry e compagni, e la sera dopo i DeUs, dei quali le radio FM quest’estate hanno mandato una hit in heavy rotation, facendo pensare al popolo italiano intero che loro siano dei sofisticati musicisti pop; siccome che Tangerine me li aveva amichevolmente consigliati, li conoscevo per quelli che sono, cioè dei tosti rocker di un paese dove il rock manco te l’aspetti, infatti vengono dal Belgio. Bravi, cento minuti spesi bene, che neanche loro ci credevano, e continuavano a ringraziare la Sicilia e l’Italia. Li avranno soffocati di mare, vino e sole, così imparano a vivere a Bruxelles.
Ritorno alla normalità?
Praticamente, come già descritto, domenica 31 siamo tornati in città, lasciandoci dietro la sensazione di trenta giorni passati troppo velocemente, e la mattina presto dell’1 settembre ero in aeroporto, poco dopo scodellato a Firenze per una simpatica riunione tra colleghi di lavoro. Ovviamente non potevo fare a meno di fare quello che mi riesce meglio, cioè spiare il prossimo in aeroporto, o godermi le gesta dei passeggeri latitanti nello schiumoso vuoto emotivo che accompagna i viaggi aerei con risicate coincidenze.
Al ritorno da Firenze, un procione viaggiatore camuffato da magra donna presumibilmente dell’est Europa ha sgranocchiato, pescandole da un sacchetto di cellophane trasparente, un numero impressionante di mele e pesche. Forse si stava preparando al letargo, e quando è passata la hostess per il micro rinfresco che ancora Alitalia (ancora per poco, poveri i miei punti millemiglia che finiranno dissipati nel niente, come un peto di Tremonti) graziosamente somministra, la prociona non ha capito nulla, ha afferrato una bottiglia di cocacola e messo le mani nel cassettino con gli snack, e non c’era verso di farglieli restituire.
Menomale che l’hostess era di buonumore, e se l’è presa a ridere (pure io me la sono presa a ridere, per solidarietà con l’hostess) nonostante che, temo, perderà il posto. La mia vicina di posto plantigrada ha continuato a rosicchiare salatini e biscotti per tutto il viaggio, accompagnando il bolo con ampie sorsate di cocacola, e quando è ripassato il carrello-cestino ha buttato dentro pure quegli snack che non era riuscita a mangiare. Poi, ha ruttato in maniera composta, coprendosi la faccia con un fazzoletto di carta. Ecco il bello di viaggiare, si imparano usanze sempre nuove.
Questo lo spiego dopo
eccomi che lo spiego:
Siamo stati adottati, da lei.
Grande mangiatrice di croccantini e lucertole, dispensatrice di fusa a tonnellate e strusciamenti sulle gambe, e contenitore ambulante di coccole a tempo: scaduto il tempo dissuadeva i coccolatori con precise unghiate, tipo freddy krueger, che ne portiamo ancora tutti i segni sulle mani.
Ma si sa, i gatti di campagna non vanno tanto per il sottile, e non sono avvezzi alle mollezze dei gatti cittadini.
Tanto, in città, al b&b della med-moglie, siamo stati adottati da un gatta’altra, pazza come una tempesta tropicale in scatola di montaggio, che si presenta solo se le si fischia (il muci-muci con cui si chiamano i gatti siculi con lei non funziona) e che per fare le feste preme con i cuscinetti delle zampe sulle mani e mordicchia, è di modi più urbani anche se inconsueti.
Ecco spiegato l’Al Stewart d’antan. Se proprio devo dargli un nome, questo me lo ricorderò come l’anno dei gatti.