Mi sveglio con il tipico malcontento dei
giorni di festa: quei giorni in cui pensi di voler fare chissà cosa, ci studi,
prepari e organizzi ma poi realizzi ben poco.
Che poi che festa è quella dei defunti:
solo qui al sud, dove sopravvivono usanze tribali e qualsiasi scusa è buona per
non lavorare e mangiare e bere e fare casino con i familiari, per chi ce li ha.
Non ho dubbi, devo fuggire. Un paio d’ore
di solitudine. Fare ciò che ho in mente, prendere la moto da fuoristrada e
lanciarmi nel giro della Gran Fondo di San Vladimiro, seguendo il percorso della
gara di mountain bike che si è disputata qualche giorno fa.
Ci penso da allora, da quando ero tra gli
alberi a guardare quelli che si lanciavano dentro le discese con quelle
biciclette, ed io a immaginarmi in piedi sulle pedane della moto, col peso del
corpo buttato indietro, a scapicollarmi per lo sterrato.
Scendo in garage, mi accoglie il bouquet
dei fumi di benzina; tolgo il telo alla moto, lo piego e poi la spingo fuori.
La luce del mattino scolpisce le linee
taglienti di parafanghi e serbatoio, ho un brivido di piacere nel guardarla, è
stato un buon acquisto, riesco a padroneggiarla con sicurezza, finora non mi
sono fatto male.
Una moto costruita in Italia, da un bravo meccanico
che ha messo assieme anche ottimi componenti: certo, non potrei gareggiare,
questi ragazzini foruncolosi senza nessuna paura vanno in giro come i diavoli
con le loro giapponesi, ma chi se ne frega, è la moto giusta per me.
Arrivo all’inizio del bosco: ci sono ancora tutte le fettucce, i banner, gli organizzatori si sono “dimenticati” di ripulire, tra qualche giorno, alcuni volenterosi- incluso me- toglieranno tutto, e restituiranno l’ordine e la pace al bosco.
Arrivo all’inizio del bosco: ci sono ancora tutte le fettucce, i banner, gli organizzatori si sono “dimenticati” di ripulire, tra qualche giorno, alcuni volenterosi- incluso me- toglieranno tutto, e restituiranno l’ordine e la pace al bosco.
Il percorso è ben segnato e non vedo l'ora
d'imbucarmi dallo sterrato che segue alla partenza.
Trovo la linea, mi tiro in piedi sulle
pedane e comincio a correre lungo i boschi, non mi sembra neanche vero, tutto
per me e pensare che sino a notte fonda avevo cercato un compagno d'uscita. Ma
tutti con la scusa pronta, pure quello cui ho fatto una lunga serie di faticosi
favori. Fottiti, la prossima volta te la sbrighi da solo.
Non pensarci, dico a me stesso, e intanto apro
il gas e il susseguirsi di tracce diventa il mio gioco di oggi, il mio
obiettivo, spalanco il gas e freno come se fossi impegnato in una prova
speciale da vincere.
Il rombo dello scarico-a cui non ho mai
asportato il silenziatore- entra ovattato nel casco, guardo avanti, freno,
curvo, apro il gas, controllo l’impennata e subito dopo una curva rallento e mi
fermo: la moto gira al minimo, la nuova centralina fa un lavoro perfetto, considero
soddisfatto.
Questa parte in penombra del bosco mi mette
inquietudine, non saprei spiegare il motivo ma adesso avrei gradito avere un compagno
di escursione. “ma che ti passa per la zucca” mi dico ad alta voce, ingrano la
prima e riparto, lasciando alle mie spalle un ventaglio di sassolini.
Intanto ho abbandonato il fettucciato, e scopro
nuovi percorsi, sentieri ben battuti che in tanti anni di scouting da queste parti non avevo neanche immaginato
che potessero esistere.
Mentre guido, penso come mai nessuno abbia
mai pensato di far conciliare due eventi, moto e bici e quanto ci sarebbe stata
bene una bella prova speciale notturna
su questi percorsi già tracciati e con un panorama da toglierti il fiato, ma il
flusso dei pensieri viene interrotto subito dopo una curva. All’improvviso vedo
un animale, è fermo al centro del sentiero, in pochi millesimi di secondo il
suo sguardo incontra il mio, lui decide di fuggire, intimorito dal rombo della mia
enduro.
Sparisce, come se non fosse mai esistito,
allora decido di fermarmi e spegnere la moto. La appoggio ad un albero e torno
verso il luogo dell’incontro, cercando nella polvere una traccia, che non sia
quella lasciata dai tasselli delle mie
ruote. Percorrendo a piedi lo sterrato d'un tratto sento un rumore, uno
schiocco di rami spezzati, alzo lo sguardo verso il bosco e lo vedo. Un
meraviglioso daino, avrà almeno due anni, che quasi imbalsamato mi osserva con
le orecchie tese. Ci fissiamo per alcuni minuti, lui apre le narici cercando di
captare il mio odore, io non gli tolgo gli occhi di dosso, cerco il telefono
per scattargli una foto ma non lo trovo. In un flashback ricordo di averlo
lasciato sul banco di lavoro in garage per avere le mani libere e poter piegare
il telo della moto. Fanculo, quando lo racconterò non sarò creduto, fanculo.
Allora sfilo lentamente il casco, lui continua a guardarmi, dalle froge esce
vapore acqueo, le luci radenti del bosco lo circondano di una luce magica, mi
sento in grado di stabilire con lui un contatto primordiale. Tento di attirarlo
con una specie di verso improvvisato al momento, emetto una specie di belato, ovviamente
non funziona: ma lui non si è mosso, orienta le orecchie cercando di
interpretare se ci sono segnali di pericolo, io mi accoscio sul ciglio della
strada voltandogli le spalle, sperando che si decida ad avvicinarsi.
Il momento è magico, ma non appena mi giro di nuovo, il daino è sparito, senza nessun rumore. Mi rimetto in sella, a motore spento, e mi avvio lungo la pista che va in leggera discesa.
Il momento è magico, ma non appena mi giro di nuovo, il daino è sparito, senza nessun rumore. Mi rimetto in sella, a motore spento, e mi avvio lungo la pista che va in leggera discesa.
Ma appena dopo un’altra curva vengo quasi
investito da una mucca al galoppo: mi butto di lato per non venire caricato da
una bestia terrorizzata di cinque quintali, cado e resto sotto la moto.
Mi sento osservato, mentre cerco di sfilare
la gamba da sotto, e con la coda dell’occhio vedo un’ombra: anzi tre ombre.
Sento l’adrenalina che va in giro a
risvegliare la mia sensazione di pericolo, devo sbrigarmi, anche perché mi pare
di vedere che una delle tre ombre è umana ma non troppo, e brandisce un lungo
bastone.
Vuoi vedere che è un vaccaro inviperito dal
fatto che qualcuno ha insidiato una delle sue vacche e ora vuole farmela
pagare.
Faccio un ultimo sforzo e finalmente sono
libero, rialzo la moto, che intanto si è spenta: neanche faccio in tempo a
felicitarmi per la libertà riconquistata che le due ombre, che in realtà sono
due molossi, si lanciano contro la vacca che ho incontrato prima e che sta
tornando indietro, la assalgono azzannandola alle zampe e al collo.
“cazzo fai, ferma i cani” urlo al vaccaro con
la voce strozzata dalla tensione, ma quello ora sta venendo verso di me, e il
lungo bastone ha una lama attaccata alla fine che ha proprio l’aria di essere
tagliente.
Nel frattempo i molossi hanno steso la
vacca e col muso grondante sangue mi fissano con uno sguardo stupido e feroce.
Mi rimetto in sella, mentre il vaccaro
assassino è a pochi metri da me, premo il pulsante di messa in moto e
magicamente la quattroemmezzo si mette in moto: mi frugo nel marsupio, trovo la
457 magnum che fa sempre parte della mia dotazione di emergenza, prendo la mira
e centro lo zombie che ormai mi ha quasi raggiunto.
Ma quello non cade e continua a camminare
verso di me, gli sparo altri due colpi, il botto mi rincoglionisce, sto sudando
e tremando contemporaneamente, poi-sono morto-penso, perché i due cani si
lanciano verso di me.
Rimetto la pistola nel marsupio, giro il
gas e riparto in monoruota, schivando un cane e centrando l’altro con un
calcio, mentre sento il sibilare della falce del vaccaro dietro di me, il cuore
è oltre la soglia della fibrillazione, l’accelerazione della moto quasi mi
strappa di sella ma il breve rettilineo sterrato finisce all’improvviso.
Un salto, oltre i cespugli vedo la
provinciale, cerco di bilanciare il peso in volo, aspetto il contatto della
ruota posteriore con l’asfalto, la sospensione assorbe l’impatto, riesco a
fermarmi davanti ad un cartellone pubblicitario senza sfondarlo.
“Dolcetto o scherzetto” recita il claim.
Fanculo, lo sapevo che non dovevo uscire a
Halloween. Rimetto la prima, sull’asfalto la moto canta che è un piacere, mi
volto e rivedo il daino di prima, pare che mi dica “per stavolta te la sei
cavata”, terza, quarta quinta e torno verso casa.
(da un'idea di Gunther Brauer)
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